Stile di vita
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Il mio percorso minimalista

Il minimalismo è stato ampiamente spiegato e decodificato da gente più qualificata e certamente più minimalista di me.
Io qui voglio parlare di un minimalismo, il mio; il mio percorso di consapevolezza verso un traguardo per sottrazione.

Tutto è cominciato con New York.
Tra il 2008 e il 2009 io e il MaritoZen abbiamo vissuto in un delizioso, piccolo appartamento nel Village di Manhattan. Eravamo una coppia senza figli, avevamo portato due valigie a testa per un anno, abbiamo fatto shopping acquistando abbigliamento e articoli per la casa, ma siamo riusciti a conservare un ordine e uno spazio molto rilassanti.
Poi siamo rientrati a Roma, con il doppio in volume del bagaglio di partenza. Non solo, ci aspettava a casa un passeggino con ruote ammortizzate e una serie incredibile di oggetti per neonato che avevamo acquistato e fatto arrivare direttamente a destinazione, dove di lì a qualche settimana sarebbe nato il nostro piccolo Momo.
Da quel momento c’è stato il caos.
La nostra casa nei tre anni successivi si è modificata e compressa. Un letto in più, un armadio in più, una montagna di giocattoli e quintali di cotone organico che si avvicendava in lavatrice.
Poi è nato Ricco, la necessità di conservare per lui abbigliamento e giocattoli dismessi dal grande ha richiesto spazio che non avevamo, col risultato che ho avuto una serie di scatole e sacchi di cose che vagavano per casa al ritmo di un mal riuscito gioco delle tre carte.

Eppure dentro di me si faceva largo un’immagine: quella del mio piccolo, adorabile appartamento del Village. Semplice, in ordine, essenziale. Grande la metà del nostro appartamento italiano. Il mio armadio a muro newyorkese conteneva anche piccole follie modaiole, ha dovuto far spazio a capi pre-maman imprevisti, ma non ero mai inciampata in un paio di scarpe, come quotidianamente mi capitava a casa, a Roma. Tutto aveva un suo posto.
Dov’era il problema quindi?

Il problema della nostra casa a Roma è stato la mancanza di transitorietà. A New York io ero in modalità temporanea, sapevo che ciò che avrei potuto comprare rappresentava un peso da riportare oltreoceano e ogni volta mi sono chiesta: ne vale davvero la pena?, diminuendo drasticamente l’accumulo.
Il problema a Roma è stato il defocalizzare le reali esigenze, tarandosi su eventualità e probabilità. A New York mi sono data il tempo di comprendere quali fossero i bisogni, non potevo prevederli. Dal tipo di abbigliamento in base alle temperature che avrei trovato nell’arco di un anno, all’arredamento e i complementi per il nostro appartamento. Avrei trovato una casa ammobiliata? Totalmente vuota? Avrò bisogno di un cappottino da mezza stagione o del passamontagna? Staremo a vedere e agiremo di conseguenza.
Qui invece era tutto un: che ci faccio con questo? Niente, ma se dovesse servirmi tra un mese o dieci anni? Meglio schiaffarlo nel fondo dell’armadio o dietro il divano. Carino questo, dove lo metto? Be’, che importa, ma potrebbe risolvermi un problema se dovesse presentarsi. Intanto lo appoggio qui.
Credo il concetto sia chiaro.
E il risultato anche: con la scusa di proiettarmi in un futuro dove possiedo tutto ciò che potrebbe occorrermi, vivo un presente di disagio e malessere a causa dell’ingombro di oggetti che nell’immediato sono inutili, superflui.

Così ho iniziato in sordina a fare raid di pulizia, riempiendo buste, sacchi dell’immondizia, valigie, scatoloni, liberandomi di tantissime cose, ma scoprendo contemporaneamente qualcosa di inquietante: in casa non si notava la differenza.
Nel giro di pochi giorni il disordine e la sciatteria tornavano a farla da padroni. E così litigavo col MaritoZen che aveva lasciato una cravatta sul divano, mi imbestialivo (nel vero senso del termine) con i bambini che lasciavano in giro i loro giochi e piangevo anche, quando non trovavo qualcosa di importante sommerso dalla baraonda.

E poi, e poi come spesso nella mia vita, dei libri sono venuti in mio soccorso. Prima Dominique Loreau con i suoi testi eL’arte della semplicità in particolare e poi in seguito con Marie Kondo.
Da lì ho capito che sbarazzarmi del superfluo era fondamentale, ma la situazione non sarebbe cambiata finché non avessi mutato totalmente il mio approccio al mondo — neppure alle cose, proprio al mondo.
Perché finché si resta vittime del diabolico potere rassicurante del possesso di un oggetto, finché non si sposta l’attenzione verso una certa essenzialità di esperienze e vissuti,  i nostri spazi continuano a strabordare inghiottendoci.

E così tutto è cominciato a New York, ma continua dentro di me. Ogni giorno. Sottraendo cose e posando attenzione sulla vita.

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