C’è stato quello che mi amava troppo
mi amava da morire
mi amava da impazzire
mi amava da ammazzare
da star male
da stremare
da struggersi
e ferirsi.
Ferire.
Ero l’unica, la dea.
Aveva riempito
di rose un giardino
allestito intorno
una siepe frondosa.
Natura odorosa
piegata all’uopo
e tiepido sole.
Grazie servite
e prodigate
petalose ventate.
Ero l’unica, la dea.
Poi le prime piogge
annacquarono l’atmosfera
puzza livida
di paura e di riscatto
– puzza di fregatura
pantano alle caviglie
pungenti esalazioni
tumefazioni diffuse.
Più che un giardino una camera a gas.
Ero l’unica, la dea.
E nessuno poteva toccarmi
nessuno sfiorarmi
nessuno concupirmi
neppure guardarmi
e parlarmi?
Poco.
La gente ha parole armate
occhi troppo sporchi
pensieri troppo laidi
bocche troppo luride
mani troppo viscide.
E io ti amo troppo, diceva.
Ero l’unica, la dea.
Ero sua
sue le gambe
suoi i sorrisi
suoi gli sguardi
e i capelli sciolti
e le labbra pittate.
Ero l’unica, la dea.
Restava la fuga
fuga di dea
dea in fuga
Figa l’idea.
Questo testo fa parte di una piccola raccolta intitolata “Eppure aspettavamo il principe azzurro”, un insieme di parole che vivrà di musica propria, da qualche parte, chissà. Ma presto. E io sono emozionata.
5 Comments