Stile di vita
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Io, la maglia e un nuovo amore #westknit

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Quando ero piccola, arrivava l’estate e le scuole chiudevano.
Mia madre lavorava in banca, mio padre, promotore editoriale, chiudeva l’agenzia solo ad Agosto.
Io non lo so se i miei genitori si facevano venire le tachicardie come prendono a me, ma comunque — mia sorella ancora non c’era — il problema-figlia veniva gestito così: alcuni giorni venivo affidata a mio nonno, che ha presidiato il magazzino di mio padre dalla pensione fino a pochi anni fa, con il quale componevo le collane dei libri scolastici per settembre, facevo merenda seduta in cima ai bancali di libri incellophanati, ascoltavo storie bellissime della sua infanzia o di sua invenzione, facevo amicizia con librai chiacchieroni e professori colti, sfogliavo libri illustrati e sognavo di scriverne; altri giorni venivo accompagnata la mattina presto da mia nonna, che aveva un meraviglioso terrazzo petaloso, abitato soprattutto da gerani, con i quali mi avvantaggiavo di una ventina d’anni sulla ricostruzione unghie e mi fregiavo di manicure rosa (geranio, appunto). Ma non solo: con lei sin da piccolissima ho imparato ad amare i ceci, perché me li spellava, uno a uno, e mi raccontava che il primo fosse la mamma e gli altri, in fila come un trenino, i figli: mangiato il primo era importante far ricongiungere la prole con la madre quindi uno alla volta, giù nella pancia.
E poi ho imparato a ricamare — punto a croce — a fare la maglia e l’uncinetto. Sarà per questo che di lei, quando la cerco nella memoria, quello che visualizzo più nettamente sono le dita, l’attaccatura delle unghie, il modo in cui muoveva le mani: il mio sguardo l’amore e i ricordi li catturava da quei gesti lì.
L’estate era lunga e durava un soffio.

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La maglia quindi l’ho imparata in quelle estati lontane, estati fresche — a quei tempi chissà forse non si sudava.

Non ho ripreso i ferri per anni. Forse a una certo punto ci avevo riprovato, i primi anni dell’università, non sono sicura.
Poi a New York. Non era estate, non era casa.
Ero incinta, abbastanza sola, nevicava. Ho iniziato a frequentare un posticino carino a Manhattan, a Soho. Ordinavo una tisana e cercavo di riprendere confidenza con dritto e rovescio per fare una copertina per Momo, che non l’ha mai usata perché è nato d’estate e avevo sbagliato filato.
Poi la maternità mi ha fagocitato e ho ripreso davvero i ferri in mano solo pochi mesi fa.

Da quando mi sono rituffata nel mondo della maglia ho rivoluzionato il metodo: utilizzo quello continentale con i ferri circolari o accorciati. Per me è stata una svolta, sono diventata molto più veloce e mi sembra tutto più facile e intuitivo. Per di più i ferri sono agevoli e per niente pericolosi, si portano facilmente appresso e nelle mie borse quotidiane più simili a valigie sono discreti, non fanno la differenza. Questo mi permette di portare avanti lavori anche in autobus o mentre i bambini fanno sport.
La cosa più bella è che per un certo tipo di lavori che non richiedono molti conti e concentrazione riesco anche a leggere nel frattempo. Praticamente il paradiso.

Ma veniamo alla mia cotta: Stephen West. Be’ cotta non proprio nel senso stretto del termine, ma comunque me ne sono appassionata. Su Raverly ci sono tutti i suoi ultimi design e io ne sono totalmente soggiogata. Per ora ho acquistato e sviluppato #thedoodler di cui sono molto orgogliosa.

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E adesso sono all’inizio di un #parachutey, un top molto stravagante ma davvero carino, per il quale sto utilizzando un po’ di rimasugli di lane. Mi auguro che non venga fuori una schifezza.

Però i progetti più grossi ce li ho per la bella stagione: se il modello del Parachutey si presta come credo conto di rifarlo nella misura più grande con cotone, seta o lino per trasformarlo in un abitino. E poi voglio riempire i vasi delle miei finestre di gerani e ammirarli insieme ai miei bambini mentre imparano a fare la maglia.

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