A scuola avevo un compagno che ho amato moltissimo.
Mi raccontava che entrare in un nuovo spazio era sempre una conquista. Comprenderne i confini, memorizzare la disposizione degli elementi che lo compongono, prendere le misure avendo come unità i propri passi, le proprie dita.
Mi diceva che per lui poteva esistere solo ciò che veniva toccato o calpestato.
Il mio amico parlava di stanze, di luoghi, ma intendeva la vita, le persone.
L’ho incontrato dopo vent’anni per caso, in una bottega di quartiere di dove sono nata.
Ha riconosciuto la mia voce, io ho riconosciuto la sua pelle.
Ha seguito con i polpastrelli le mie lacrime.
Sei ancora tu, non soltanto una voce familiare, ma un’anima che posso ancora toccare, mi ha detto.
Il mio amico non ha mai potuto vedere, era cieco dalla nascita.
Mi diceva che ciò che tocchi esiste per sempre, è la tua realtà immutabile: un banco di scuola resterà per sempre alto così e tu resterai sempre quella con le lacrime in tasca, mi diceva.
Se vuoi ascoltare questa storia, la leggo su Spreaker #quellochegliocchinonvedono